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In Kem som kan a leve, precedente eccellente cd dei Building Instrument del 2016, individuavo la qualità della loro musica in quel raccordo tra folk del Nord Europa, elettronica leggera e significatività progettuale: in Mengelen Min queste caratteristiche vengono replicate, anche se con meno forza amplificativa. La sensazione è che in esso l'ordigno produttivo sia troppo al centro degli interessi e in qualche misura sia tutto da decodificare con gli ascolti, perché può mettere a repentaglio la naturalezza delle soluzioni del trio, soprattutto partendo dai benefici dalla splendida vocalità della Brunvoll. Nell'iniziale Lanke (ancora ispirita a Kurt Schwitters) Mari mi ricorda molto le cantanti native americane del Robbie Robertson solista post-The Band, ma la parte produttiva si dilunga ed indulge un tantino; la title track sfrutta un arpeggio barocco (un genere che ricorre spesso in parcellizzazioni studiate durante il lavoro) e mostra un umore che la avvicina ad una versione candida della Grace Slick di Crown of creation; lo stesso passo barocco si insinua in Rygge Rygge La la, dove la Brunvoll si aggrappa originalmente al cantare malinconico che striscia dalle parti di Billie Holiday, fornendone un moderno status; d'altra parte in Sangem min l'arrangiamento un pò invasivo si affianca ad un'ottima predisposizione degli elementi strutturali della melodia. Anche sui testi c'è un pò di enfasi in meno rispetto a Kem som kan a leve e non solo per via del fatto che non viene usato il dialetto, poiché più che intercettare poesia sonora sperimentale, essi navigano nel sentimento, nei contrasti o nelle attese degne di uno scrittore pop. Nonostante queste remore resta tuttavia intatta la potenzialità di un gruppo che ha credenziali altissime per continuare a far bene nel futuro ed essere un punto di riferimento di un policromo post-pop da gestire nel nuovo secolo.